Intervista al Ceo Gilead Italia: “Obiettivo 10 farmaci ‘trasformativi’ entro il 2030. E per fare questo, l’Italia è un Paese strategico”

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Un obiettivo ambizioso anche per una Big Pharma con una lunga storia come Gilead Sciences: portare sul mercato una manciata di terapie ‘breakthrough’ nel giro di 7 anni. “Per farlo, se continueremo ad avere il giusto ecosistema per garantire accesso all’innovazione, l’Italia sarà per noi un Paese strategico”, promette il Ceo Frederico da Silva, da 6 mesi alla guida della multinazionale californiana in Italia.

Il manager, portoghese, vanta una ventennale carriera nel settore farmaceutico con una lunga esperienza proprio in Gilead, dove ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità. Laureato in Scienze Farmaceutiche presso l’Università di Coimbra in Portogallo, da Silva ha successivamente conseguito un Master in Marketing Management presso l’Universidade Católica Portuguesa di Lisbona. Dal 2011 è stato Business Unit Director dell’area terapeutica HIV in Portogallo, dove dal 2013 gli è stata poi affidata anche l’area delle epatiti. Grazie ai brillanti risultati ottenuti, nel 2014 ha preso la guida dell’area epatiti in Spagna, coordinando inoltre con successo progetti europei sempre nell’area dell’infettivologia. Dal 2019 da Silva ha ricoperto il ruolo di General Manager della regione del Medio Oriente, area composta da 12 Paesi di rilevanza strategica nel mercato farmaceutico mondiale. In pochi mesi si è già affezionato all’Italia e ai suoi talenti, che promette di voler trattenere, come anche promette di avere in programma un aumento delle nuove assunzioni, necessarie a coprire una serie di progetti chiave nel nostro Paese. Dove, negli ultimi mesi, sono state approvate nuove importanti terapie nel campo infettivologico, da sempre ‘focus’ dell’azienda con base a Foster City.

Quando inizia l’impegno di Gilead nell’area infettivologica?

Questa area terapeutica è stata il focus di Gilead fin dalla sua nascita, stiamo parlando del 1987. Siamo nati come azienda della Silicon Valley, in California, in un periodo in cui l’HIV stava iniziando a raggiungere il suo picco e non c’erano cure. Il nostro gruppo di ricerca pensò che applicare le biotecnologie alla prevenzione e alla cura di questo virus fosse dovuto. Quindi è iniziato tutto in quel periodo, abbastanza buio direi, ma in questi ultimi 35 anni abbiamo aiutato la comunità medica e la società in generale a fare passi avanti importanti, trasformando quella che era un’infezione mortale e incurabile, in una condizione cronica, prevenibile e trattabile, che oggi consente alle persone colpite di avere la stessa aspettativa e qualità di vita di una persona sana. Questa esperienza ci ha poi portati ad applicare l’expertise in virologia al campo delle epatiti, con terapie che hanno modificato per sempre il trattamento dell’HCV, dell’HBV e ora dell’HDV, ma anche nelle infezioni fungine invasive (con prodotti che fanno parte della lista WHO dei medicinali essenziali), trasformando radicalmente la storia naturale di queste patologie. Abbiamo lavorato sul virus Ebola e con la pandemia abbiamo da subito analizzato i nostri database per individuare molecole potenzialmente efficaci contro Sars-Cov-2, trovando in remdesivir una potenziale terapia, oggi utilizzata da 13 milioni di persone nel mondo per contrastare Covid-19, 155.000 solo in Italia. Siamo molto fieri di aver potuto dare una mano in una situazione così difficile. Il nostro modello di lavoro è comunque ibrido: puntiamo molto anche su collaborazioni con organizzazioni e università esterne e, investendo circa il 20% del nostro fatturato in R&S, dedichiamo parte di questi fondi a progetti in condivisione con partner. Questo ci permette oggi di avere 28 farmaci approvati e 55 in pipeline.

Quali sono i milestone raggiunti dall’azienda negli ultimi 10 anni in questa area?

Oltre a quanto detto finora, parlerei sicuramente del nuovo farmaco, bulevirtide, approvato quest’anno anche in Italia per l’epatite Delta, una forma molto aggressiva di epatite scoperta 45 anni fa, ma contro la quale non c’erano ancora opzioni terapeutiche. Inoltre, è stato da poco approvato da EMA lenacapavir contro l’HIV, che ha la caratteristica del lento rilascio e della somministrazione sottocutanea, due volte l’anno. Attualmente è autorizzato per i pazienti già trattati, ma confidiamo in un’estensione di indicazioni che potrà andare a beneficio di un numero maggiore di persone. Risalendo indietro con gli anni, nel 2019 abbiamo lanciato il nostro inibitore dell’integrasi, che è l’attuale standard di cura per l’HIV in tutto il mondo, con una somministrazione orale giornaliera, e un profilo di sicurezza largamente dimostrato. ‘Last but not least’, nel 2014 la ‘rivoluzione sofosbuvir’, farmaco salvavita e curativo per i pazienti con epatite C: mi ricordo che quando lessi il profilo di sicurezza di questo medicinale, con una tollerabilità sovrapponibile a quella del placebo, non potei crederci. Una nuova era per i pazienti e per i sistemi sanitari. Ed è grazie a quel farmaco se oggi in Italia abbiamo un fondo di spesa espressamente dedicato alle cure innovative, per facilitare l’accesso dei pazienti alle nuove terapie: prima non c’era e non si era reso necessario. D’altro canto parliamo di una terapia realmente breakthrough, curativa, cosa molto difficile soprattutto in infettivologia dove le patologie tendono a cronicizzare piuttosto che guarire. Siamo molto fieri di tutto questo.

Su cosa sta lavorando l’azienda? Quali sono i progetti in sviluppo?

Siamo ancora profondamente impegnati nel campo dell’HIV. E’ la nostra mission e la visione di Gilead è di arrivare ovunque sia presente questo virus: in occidente è ormai sotto controllo, ma non è così in altre parti del mondo e i bisogni insoddisfatti sono diversi fra loro. Ecco perché stiamo lavorando alla prevenzione e al trattamento dell’infezione, e poi sotto il profilo della sicurezza. Come detto, lenacapavir è stato approvato come trattamento, ma è allo studio anche come sistema di prevenzione. Pensiamo a come sarebbe prevenire l’HIV con due iniezioni sottocute l’anno: quasi una vaccinazione. E poi ci sono tutte le opzioni terapeutiche orali: puntiamo a fornire a ogni paziente con bisogni diversi, soluzioni diverse. Penso che in questo settore succederà molto nei prossimi anni, non solo grazie a noi, ma anche grazie ad altre aziende. Per la cura dell’HIV abbiamo 7 programmi attivi di sviluppo: non deve sorprendere perché questo virus è molto intelligente e la ricerca da fare è ancora molta, ma siamo convinti che, anche con il contributo di vaccini terapeutici o di terapie cellulari, esplorando dunque diverse strade, potremo interrompere l’epidemia che sfortunatamente è ancora presente e a volte non sotto controllo come in Occidente. Abbiamo infine un altro farmaco in sviluppo, Obeldesivir  per il trattamento di Covid-19. Al contrario di remdesivir è orale e non iniettivo, perché dobbiamo considerare che anche se la pandemia di Covid-19 è stata dichiarata conclusa, c’è ancora un’infezione endemica con cui dobbiamo convivere ed è importante continuare a lavorare in questa area.

Qual è il ruolo delle farmaceutiche per il Sistema Italia, in particolare di multinazionali come Gilead?

Sono in Italia da soli 6 mesi, ma è evidente per me la presenza di una massa critica in questo Paese, in un settore che peraltro dà un forte contributo economico e sociale. Senz’altro il nostro ruolo è di contribuire a mantenere la popolazione in salute, un ruolo a volte dato per scontato, ma inevitabilmente ‘riscoperto’ durante la pandemia; siamo poi in grado di attrarre talenti, cosa non scontata e molto importante vista anche la ricaduta che la ricerca ha sull’economia di un Paese: trattenere cervelli in Italia è davvero importante, sotto molti punti di vista. C’è poi il contributo economico, collegato ai posti di lavoro creati (e 34 miliardi di euro di valore della produzione), ma anche alla parte manifatturiera italiana, con cui noi lavoriamo da tempo: l’Italia ha superato Francia e Germania nella produzione farmaceutica, con una expertise di altissimo livello anche per farmaci difficili da produrre, e noi abbiamo 7 partner strategici con cui lavoriamo costantemente in particolare per produrre sofosbuvir, remdesivir e lenacapavir, e alcuni prodotti oncologici, altra area in cui siamo fortemente impegnati. Tutte terapie con avanzati meccanismi di produzione in parte ‘made in Italy’, quindi, per diverse centinaia di milioni di dollari di investimento annuali da parte di Gilead. Anche dal punto di vista della ricerca, Gilead è presente dal 2000, e in questi 23 anni abbiamo portato avanti oltre 180 trial clinici coinvolgendo oltre 80.000 pazienti. Negli ultimi 10 anni abbiamo inoltre sostenuto con circa 10 milioni di euro quasi 400 progetti di ricerca indipendente da parte di ospedali e università.

Quindi continuerete a investire in Italia?

La risposta è certamente sì. Il livello di eccellenza della produzione e del personale fa parte del nostro asset strategico ormai in maniera stabile. E questo anche dal punto di vista della ricerca scientifica. Quindi continueremo a produrre qui, a organizzare trial clinici, anche in area terapeutiche nuove come l’oncologia e la terapia cellulare. Stiamo anche aumentando il numero di dipendenti e questo continuerà perché il nostro portfolio si sta espandendo anche in Italia. L’azienda ha l’obiettivo di portare sul mercato 10 terapie ‘trasformative’ entro il 2030 e per fare questo, se continueremo ad avere il giusto ambiente per garantire accesso all’innovazione, l’Italia rappresenta un Paese strategico. E credo che la riforma dell’Agenzia del farmaco (Aifa) vada in questa direzione, quindi siamo allineati nella direzione da intraprendere, vedremo poi i dettagli su come fare tutto questo.

Ci sono degli ostacoli in particolare che andrebbero rimossi? Come giudica l’ecosistema italiano?

Personalmente ho lavorato in 3 continenti e devo dire che l’Italia non è né il migliore, ma nemmeno il peggiore Paese dove investire. Ho lavorato molto in Spagna, e devo dire che l’accesso all’innovazione garantito dall’Italia è molto migliore a confronto. Ciò che la Spagna ha fatto meglio, invece, è rimuovere alcuni ostacoli burocratici nell’organizzazione dei trial clinici. Ma anche in Italia c’è oggi una barriera che si crea nel passaggio dalle approvazioni nazionali dei farmaci, ai prontuari terapeutici regionali. Penso però che il sistema funzioni e che soprattutto il dialogo sia aperto e in progress, per avere un’agenzia regolatoria che renda il sistema sostenibile e indirizzi le giuste risorse all’innovazione. Il mondo oggi è molto globalizzato, quindi rendere l’Italia un po’ più veloce e competitiva ci preparerà meglio al futuro.

Qual è il suo parere sulla riforma della legislazione europea in materia di farmaci?

Questa riforma era attesa da tanto e penso di interpretare l’opinione di tutto il settore farmaceutico se dico che i principi sono corretti: garantire un accesso equo alle cure in Europa è un’idea che perseguiamo tutti. Ma è quanto proposto per arrivare a questo obiettivo che è sbagliato. Ridurre la data protection, per esempio, ha un impatto sulla proprietà intellettuale di farmaci innovativi. Ancora, il rilascio di licenze obbligatorie: abbiamo visto durante la pandemia che questo non aiuta a gestire situazioni di emergenza in modo migliore. Siamo quindi allineati sui principi, ma non sull’esecuzione, soprattutto avendo in mente l’obiettivo di mantenere l’Europa competitiva nei confronti degli Stati Uniti, della Cina, di altri paesi asiatici, di far sì che i trial clinici si eseguano qui da noi e che tutti i pazienti abbiamo accesso immediato all’innovazione. Il dialogo fra Efpia e la commissione europea è in corso ed è ancora possibile a una versione finale che possa interpretare tutto questo.

 

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