NASH, una scoperta apre nuove prospettive

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La cura della steatoepatite non alcolica (NASH) è uno degli obiettivi maggiori della ricerca farmaceutica. Un gruppo di ricerca guidato dal Translational Genomics Research Institute (TGen) ha scoperto scoperta un gene legato alla malattia che si spera di nuovo impulso agli studi sui farmaci.

Il team ha scoperto che l’aumentata attività del gene AEBP1 è associata a grave fibrosi epatica nei pazienti con NASH.

L’AEBP1 regola l’espressione di almeno altri nove geni già precedentemente correlati alla fibrosi. I ricercatori hanno pubblicato lo studio sulla rivista PLoS One.

TGen, una consociata di City of Hope, ha lavorato con scienziati della Temple University e del Geisinger Obesity Institute per studiare l’espressione genica in campioni biologici prelevati da pazienti NASH con grave fibrosi epatica.

Hanno scoperto che l’espressione di AEBP1 era aumentata durante l’attivazione delle cellule “stellate” del fegato che svolgono un ruolo importante nella fibrosi epatica.

I ricercatori hanno anche scoperto che alcuni elementi legati all’obesità, e osservati comunemente in pazienti con steatosi epatica non alcolica, possono aumentare l’espressione di AEBP1. Tra questi lo zucchero e il palmitato, un acido grasso che abbonda negli alimenti trasformati.

Infatti, quando hanno esposto in laboratorio le cellule di fegato umano al fruttosio, l’espressione di AEBP1 è raddoppiata. E quando hanno combinato il fruttosio con il palmitato, l’aumento è stato pari a 56 volte.

“Dato il forte legame tra fibrosi epatica e rischio di morte, gli sforzi per identificare e caratterizzare i meccanismi specifici che contribuiscono alla progressione della malattia del fegato sono fondamentali per lo sviluppo di efficaci strategie terapeutiche e preventive”, dice Johanna DiStefano, responsabile del Diabetes and Fibrotic Disease Unit di TGen.

“Poiché AEBP1 è associato con l’inizio della fibrosi epatica grave in pazienti affetti da NASH, potrebbe costituire un buon bersaglio per i farmaci finalizzati alla sua prevenzione”, conclude l’autore principale dello studio, Glenn Gerhard, responsabile di genetica medica e biochimica molecolare alla Lewis Katz School of Medicine della Temple University.

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