Brevetti: l’Italia riprende a inventare. Ma i numeri sono ancora bassi

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L’Italia torna a inventare. Le domande di brevetti nel 2016 sono state poco meno di 10 mila, +7,5% rispetto al 2012, confermando il trend di crescita degli ultimi quattro anni, ma rimanendo lontane dai numeri prima della crisi di dieci anni fa. Per quanto i dati dell’UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi) descrivano una situazione di ripresa, l’Italia rimane però ben distanziata dai principali Paesi industrializzati europei e dai veri e propri colossi dell’innovazione quali Cina (1 milione e 100 mila depositi, secondo il WIPO nel 2015), Stati Uniti (589 mila), Giappone (318 mila), Corea del sud (213 mila) e Germania (67 mila). “Siamo comunque ancora a meno 11% rispetto ai dati del 2006. Ciò dimostra quanta strada dobbiamo ancora percorrere in Italia nella comprensione dell’importanza della proprietà intellettuale e, conseguentemente, del deposito di brevetti, marchi e modelli – spiegano Davide e Daniele Petraz, titolari di GLP, studio che da 50 anni opera nel campo della tutela della proprietà intellettuale – In Italia quasi l’80% di brevetti, marchi e modelli sono depositati da aziende attive nelle regioni del Nord, mentre purtroppo a Sud la tutela della proprietà intellettuale è davvero poco praticata. Eccezione è il Lazio, perché tante grandi aziende hanno una sede legale a Roma”.

La cultura della proprietà intellettuale
La scarsa propensione alla tutela intellettuale non dipende da una bassa capacità inventiva, quanto dal fatto che “l’industria italiana non ha la cultura della protezione del proprio sapere tecnologico, sia esso tecnico o commerciale”, proseguono i titolari di GLP. “Ciò fa sì che le innovazioni, sia a livello di invenzione, di utilità o estetiche non vengano valutate compiutamente e non si proceda alla loro protezione, da un lato ignorando o sottovalutando i rischi di una mancata tutela, dall’altro non comprendendo i vantaggi diretti ed indiretti che una politica di tutela comporterebbe». Del resto, la brevettazione è strettamente legata agli investimenti in Ricerca e Sviluppo e a un legame maggiore tra università e industria. L’Istat ha rilevato che nel 2014 la spesa per R&S intra-muros (ovvero svolta direttamente dalle imprese, all’interno delle proprie strutture e con proprio personale) di imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni no profit e università ha sfiorato i 22,3 miliardi di euro con un significativo aumento rispetto al 2013 quando fu pari a circa 21 miliardi di euro. L’incidenza sul PIL è così passata da 1,31 a 1,38%, ancora però abissalmente lontana dai valori degli altri principali Paesi europei: 2,90% per la Germania, 2,22%per la Francia e 1,70 nel Regno Unito. La questione culturale emerge anche dall’approccio che le aziende hanno verso la tutela della proprietà intellettuale. «In Italia questa tutela si applica quasi solo a prodotti che garantiscono già una redditività. I nostri imprenditori solo raramente ragionano sulla gestione della proprietà industriale in termini finanziari ed economici. Mentre approcciarsi alla tutela della proprietà intellettuale è un modo di gestire razionalmente la propria azienda con una programmazione di medio lungo periodo”.

 

 

 

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