NMOSD, inebilizumab terapia costo-efficace?

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Nel mese di marzo l’Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato, come terapia di seconda linea, la rimborsabilità di inebilizumab per i pazienti adulti affetti dal disturbo dello spettro della neuromielite ottica (NMOSD), una patologia rara, autoimmune e devastante caratterizzata da attacchi acuti e ricorrenti al sistema nervoso centrale che possono portare a cecità, paralisi e alla morte.
Alla malattia e alla novità terapeutica è dedicato il convegno nazionale “Change Direction in NMOSD”, che termina venerdì 8 settembre a Roma.

“La NMOSD è una rara malattia autoimmune, che coinvolge il sistema nervoso centrale”, afferma Massimo Filippi, Direttore dell’Unità di Neurologia, del servizio di Neurofisiologia e dell’Unità di Neuroriabilitazione dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. “Si stima che in Italia ne sono affette circa 1.300 persone, con circa 100 nuove diagnosi all’anno. La malattia si caratterizza per episodi acuti di disabilità neurologica, spesso grave, spesso solo parzialmente reversibile e secondaria a estese aree di danno tissutale che colpiscono più frequentemente il nervo ottico, il midollo spinale e il tronco encefalico. Senza una cura adeguata, vi è un alto rischio di morbilità e mortalità. Infatti, se la patologia non viene trattata, in media un terzo dei pazienti muore entro cinque anni dal primo attacco. Mentre uno su due è costretto alla sedia a rotelle. Nell’insorgenza dalla malattia giocano un ruolo fondamentale le cellule B e, in particolare, quelle positive al marcatore CD19. Queste cellule producono anticorpi anti-AQP4 che, a loro volta, provocano la cascata infiammatorio-demielinizzante della malattia che alla fine determina morte neuronale”.

Al convegno di Roma sono stati presentati i primi risultati di una ricerca HTA (Health Technology Assessment) di Altems Advisory, spin-off dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, in corso di finalizzazione su inebilizumab e in particolare sugli aspetti economici, organizzativi e sociali legati alla terapia.

“Stiamo riscontrando aspetti positivi sull’introduzione della molecola”, sostiene Eugenio Di Brino, Co-founder & partner di Altems Advisory, Università Cattolica del Sacro Cuore. “In particolare, quasi la metà del tempo dell’impegno degli operatori sanitari ospedalieri, pazienti e caregiver verrebbe risparmiato per la somministrazione del trattamento per via endovenosa. Se tutti i pazienti in Italia fossero potenzialmente trattati con inebilizumab, il risparmio medio del tempo di somministrazione è stato quantificato, in termini di personale sanitario ospedaliero, a circa €900.000. I costi sociali evitati ammontano invece a € 600.000 e sono rappresentati dalle perdite di produttività evitate al paziente o al caregiver. In totale, l’introduzione di inebilizumab potrebbe comportare un risparmio per il sistema sanitario nazionale pari a €8 milioni in 3 anni”.

Come agisce Inebilizumab
Inebilizumab è in grado di ridurre la quantità di linfociti B che esprimono l’antigene CD19. Il farmaco, un anticorpo monoclonale umanizzato, è approvato per il trattamento di pazienti sieropositivi per le immunoglobuline G anti-aquaporina-4 (IgG AQP4), presenti in circa il 75% dei pazienti con questa malattia.

“Inebilizumab è un anticorpo monoclonale innovativo e specificamente designato per raggiungere le cellule biologicamente attive nella malattia”, osserva Paolo Emilio Alboini, Dirigente Medico presso l’IRCCS Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza San Giovanni Rotondo/Foggia. “Il farmaco agisce infatti direttamente contro le plasmacellule che producono gli anticorpi patogenetici. È questo il valore aggiunto rispetto ad altri approcci terapeutici: riuscire a raggiungere alcune delle cellule responsabili del processo di malattia. La somministrazione avviene per via endovenosa tramite un’infusione di circa 90 minuti. Dopo la fase di induzione, che si realizza nei primi 15 giorni, si procede con un richiamo ogni sei mesi nella fase di mantenimento. È quindi un trattamento “favorevole” per il sistema sanitario nazionale e anche per i pazienti che, in un anno, devono sottoporsi solo a due sedute, ciascuna della durata di un’ora e mezza circa. Ma uno dei maggiori bisogni ancora insoddisfatti dei pazienti è riuscire a ottenere una corretta diagnosi. La neuromielite ottica, infatti, è una malattia molto rara e nell’oltre 40% dei casi viene confusa con la sclerosi multipla”.

“È fondamentale la tempestività della diagnosi per avere poi un successivo intervento terapeutico precoce”, aggiunge Massimo Filippi. “Solo così è possibile ridurre il rischio di accumulare disabilità perché ogni lesione, causata dalla patologia al cervello o al midollo spinale, può non permettere un’adeguata ripresa del funzionamento dei tessuti”.

La NMOSD colpisce in totale più di 10.000 persone in tutta Europa, e l’età media di esordio della patologia è 40 anni. Le donne sono nove volte più a rischio di insorgenza della malattia rispetto agli uomini.

“L’imprevedibilità, la severità e le conseguenze delle ricadute cliniche presentano un forte impatto negativo sulla qualità di vita”, conclude Mario Alberto Battaglia, Presidente della FISM/Fondazione Italiana Sclerosi Multipla e Direttore Generale AISM/Associazione Italiana Sclerosi Multipla,“Il dolore cronico interessa tre pazienti su quattro, mentre il 40% soffre di depressione. Sono molto frequenti anche l’affaticabilità, disturbi della sensibilità e sintomi sfinterici. Ma soprattutto la malattia può provocare un deficit severo visivo e dopo cinque anni circa metà dei pazienti con NMOSD diventa cieco. Tutti questi sintomi per il 60% dei malati rappresentano un forte limite sia nella scelta che nel mantenimento del lavoro, ma anche nello svolgimento di gran parte delle attività quotidiane. La continua innovazione indotta dalla ricerca medico-scientifica ha portato a trattamenti sempre più efficaci per questa patologia come l’anticorpo inebilizumab che consentono di ridurre il rischio di danni irreversibili. Proprio per questo sarebbe auspicabile un’indicazione di rimborsabilità come terapia di prima linea come già avviene in altri Paesi europei. Questo permetterebbe di risparmiare al paziente tempo prezioso utilizzando il prima possibile un trattamento estremamente efficace e di fatto “preventivo” rispetto ai danni permanenti”.

 

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