Malattie oncoematologiche, è ora di riconoscerle tra le cronicità

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Una diagnosi di “leucemia” fa sempre molta paura. Eppure, grazie alle innovazioni terapeutiche, oggi molte leucemie, come quella linfatica cronica, sono di fatto patologie croniche. Per questo, nell’ultima puntata di Camerae Sanitatis (il primo format editoriale multimediale nato dalla collaborazione tra l’Intergruppo parlamentare Scienza & Salute e SICS editore) si è posto l’accento sulla necessità di consentire una gestione efficace anche sul territorio, per fare in modo che i malati oncoematologici, alla stregua degli altri malati cronici, possano vivere il più possibile una vita “normale” senza, tuttavia, rinunciare a tenere sempre sotto controllo la loro malattia.

A confrontarsi sulle soluzioni per realizzare questo obiettivo sono stati, nel corso della puntata di Camerae Sanitatis, realizzata con il contributo non condizionante di Beigene e condotta da Ester Maragò (Quotidiano Sanità), l’on. Angela Ianaro, presidente dell’Intergruppo Parlamentare Scienza&Salute; Tonino Aceti, presidente di Salutequità; Felice Bombaci, consigliere e coordinatore del gruppo pazienti LMC, AIL-Associazione Italiana contro leucemie, linfomi e mieloma; Chiara Cernetti, direttore Market Access Italia e Balcani di Beigene; Fabrizio Pane, direttore di Ematologia e Trapianti all’Ospedale Federico II di Napoli; Davide Petruzzelli, coordinatore FAVO Neoplasie Ematologiche e presidente di La Lampada di Aladino Onlus; Paola Pisanti, già presidente e coordinatore della Commissione Nazionale Diabete e Cronicità, consulente esperto Malattie Croniche del ministero della Salute; Marco Vignetti, presidente Fondazione GIMEMA e vice presidente nazionale AIL.

Tutti concordi su una cosa: la riforma del territorio, tra Pnrr e DM71, rappresenta l’occasione giusta per questo salto di qualità dell’oncoematologia.

 

A disegnare il quadro della malattia, essenziale per comprendere i bisogno dei pazienti, è stato Fabrizio Pane. “La leucemia linfatica cronica è la forma di leucemia più frequente nel mondo occidentale, in cui i casi aumentano con l’avanzare dell’età. È dunque una malattia che rispecchia il trend di invecchiamento della popolazione, con un’età mediana alla diagnosi di 75 anni”.
“Il nome – ha spiegato l’ematologo del Policlinico Federico II di Napoli – fa molto paura, ma in molti casi si tratta di una malattia asintomatica alla diagnosi e tale rimane in un terzo dei casi. La scoperta della malattia, infatti, avviene perlopiù durante gli esami di laboratorio a cui gli anziani si sottopongono di routine, nell’ambito dei quali può essere notato un aumento animalo dei linfociti che richiede ulteriori accertamenti”.

Le manifestazioni cliniche della leucemia linfatica cronica “possono essere molto eterogenee, ma globalmente è patologia che desta meno preoccupazioni rispetto ad altri tipi di leucemie. Più della metà dei malati – ha spiegato Pane – non ha bisogno di iniziare un trattamento al momento della diagnosi e più del 30% non riceverà mai una terapia specifica nel corso della vita”. Tuttavia “è una malattia da tenere ben sotto controllo, perché se è vero che nella maggior parte dei casi non desta preoccupazione, è altrettanto vero che in certi casi può progredire velocemente e interessare anche gli organi interni. Inoltre alla leucemia linfatica cronica è spesso associata l’insorgenza di altre patologie, che vanno altrettanto monitorate per evitare una progressione che comprometta la vita del paziente”.

“È un tema di primaria importanza – ha commentato Angela Ianaro – da una parte ci ricorda come i progressi dell’innovazione farmacologica consentano oggi alle persone di avere una vita non solo più lunga, ma anche più in salute; dall’altra pone di fronte a tutti, istituzioni in primis, la sfida di creare modelli in grado di rispondere in maniera efficace ai bisogni di questi pazienti”. Per Ianaro si tratta, in un certo senso, di restituire ai malati la speranza di vita intesa non solo come aspettativa di anni, ma anche come “benessere, integrazione sociale e lavorativa, possibilità di gestire il presente e fare progetti per il futuro”. Serve quello che la presidente dell’Intergruppo Scienza & Salute ha definito “un ecosistema per salute del paziente”.

Felice Bombaci ha peraltro evidenziato come “non è esattamente vero che le malattie della terza età colpiscono solo gli anziani, perché l’impatto di una anziano malato ricade sui componenti giovani della famiglia, spesso in modo grave, proprio perché l’aspettativa di vita si allunga sempre di più e, quindi, parliamo di situazioni da gestire per un periodo di tempo molto lungo”.

Il problema, per il consigliere e coordinatore del gruppo pazienti LMC di AIL, sta nel fatto che “il Ssn non è evoluto alla stessa velocità delle terapie e della tecnologia. Quando si scopre la malattia, si entra quindi in un sistema che ha grandi potenzialità dal punto di vista terapeutico, ma che è obsoleto, che non sempre rende facile l’accesso a quelle potenzialità e che tanto meno riesce a garantire la presa in carico del paziente come servirebbe”.

Bombaci invoca quindi “un nuovo modello, da costruire insieme a tutti gli stakeholder, che permetta la gestione ottimale dei pazienti, sia per garantire loro la giusta qualità di vita ma anche per assicurare un giusto impiego delle risorse”.

Osservazioni condivise da Davide Petruzzelli, che ha posto l’accendo anche sulla necessità di includere, nei team multidisciplinari che sul territorio dovranno garantire la presa in carico dei pazienti oncoematologici, anche “lo psicologo, perché una diagnosi di leucemia provoca sempre molta ansia”. Il supporto psicologico dei paziente è fondamentale “ma se oggi esiste è quasi sempre per iniziativa delle associazioni dei pazienti e del volontariato”. Per Petruzzelli “sembra quasi che le istituzioni non ne comprendano l’importanza, dal momento che non hanno mai investito su questo servizio. Eppure avere un supporto psicologico significa far comprendere ai pazienti che non sono un peso ma che possono essere persone attive, per la propria vita e per la società”.

Per il coordinatore della FAVO Neoplasie Ematologiche e presidente di La Lampada di Aladino Onlus, “tutto è possibile, se si potenziano le reti oncologiche. Che tuttavia, ancora oggi, sono presenti a macchia di leopardo e presentano molte disparità nelle diverse aree dei paese”.

Secondo gli ospiti di Camerae Sanitatis, in questo nuovo modello di presa in carica del territorio rivestiranno un ruolo chiave anche l’infermiere e il farmacista ospedaliero. “Gli infermieri specializzati in oncoematologia potrebbero aiutare i medici nelle diverse attività per garantire una presa carico più completa, accompagnando il paziente lungo il percorso”. “I farmacisti ospedalieri avranno un compito fondamentale nella gestione delle terapie a livello domiciliare”. Questo anche se, “come è chiaramente nel Piano nazionale della cronicità, il responsabile del percorso la struttura specialistica è lo specialista, che ha il coordinamento ed è responsabile del rapporto di cura”, ha precisato Paola Pisanti.

Per la consulente esperta per le Malattie Croniche del ministero della Salute, in Italia “abbiamo strumenti di programmazione importanti”. Sul piano oncologico, “le reti sono le infrastrutture in cui si articola l’assistenza, la ricerca e la formazione e servono a raggiungere la migliore qualità di assistenza e dunque di vita di tutti i pazienti”. Questo sistema, tuttavia, funziona se è efficiente in tutte le sue articolazioni. Per Pisanti, dunque, “non c’è da annullare quanto fatto finora, quanto da riorientare e potenziare i servizi che abbiamo”.

Far funzionare tutte le articolazioni della rete vuole dire “garantire una diagnosi tempestiva e poi monitorare, assistere, sostenere e reintegrare il paziente, anche attraverso il diritto all’oblio”. Il disegno di legge in materia, per la consulente esperta del ministero della Salute “è proprio il riconoscimento della continuità di vita dei pazienti”.

Per Pisanti vanno quindi costruiti “percorsi diagnostici terapeutici assistenziali integrati fra ospedale e territorio” effettuando “una valutazione specifica sul paziente, che non è solo clinica, ma che riguarda anche i determinanti sociali e ambientali che possono alterare completamente l’accesso alla cura, alle terapie e ai percorsi di cura dei pazienti”. Per la consulente esperta del ministero della Salute “passare dai Pdta (percorsi diagnostico terapeutici assistenziali) ai Pai (piani assistenziali individuali) è una necessità per migliorare la vita dei pazienti, con benefici sull’intero sistema”.

Una rete ben organizzata, ne è convinto anche Marco Vignetti, “vuol dire appropriatezza. Significa tenere sotto controllo non solo la malattia, ma tutto il sistema, la sua sostenibilità”. In molti casi, ha evidenziato il presidente della Fondazione GIMEMA e vice presidente nazionale AIL, “queste reti già funzionano, ma serve un intervento deciso delle istituzioni affinché vengano potenziate ovunque e rese solide, anche attraverso lo stanziamento di risorse”.

Una rete solida, per Vignetti, permetterebbe anche di evitare uno errore veramente grave, quello di “sottovalutare la patologia”, che oggi dispone di terapie di tale efficacia da far quasi dimenticare al paziente di essere affetto da leucemia, “che, invece, resta pur sempre una neoplasia da monitorare con attenzione”.

Per il presidente della Fondazione GIMEMA e vice presidente nazionale AIL “è chiaro che non si può creare un percorso ad hoc per ciascun paziente, però la medicina non può essere ‘generale’”. All’interno di un percorso standard “va garantita una ‘personalizzazione’ dell’assistenza, che va realizzato soprattutto attraverso il rapporto tra chi cura e con chi è curato”. Una posizione che ha trovato d’accordo gli altri ospiti di Camerae Sanitatis, che parlando di telemedicina hanno evidenziato come le tecnologie possano essere un prezioso supporto per la sanità, ma non potranno mai sostituire la relazione con il medico.

È voluto partire dal passato per guardare al futuro Tonino Aceti. “L’oncoematologia è un fiore all’occhiello della nostra sanità pubblica, che ora va salvaguardata e rilanciata. Perché la corsa alla sostenibilità degli anni passati, con i relativi tagli, ha finito per intaccare anche i nostri fiori all’occhiello”. Le strutture ospedaliere che gestiscono leucemie, inoltre, “fanno i conti con due anni di pandemia che ha visto un preoccupante calo delle attività, basti pensare che le dimissioni ospedaliere per le oncoematologie sono passate da 4.633 nel 2019 a 3.403 del 2020. Un calo significativo di accesso alle cure su cui ora occorre lavorare sodo per recuperare”.

Il presidente di Salutequità ha chiesto “un accesso tempestivo ed equo su tutto il territorio nazionale alle reti, che oggi sono riconosciute a livello formale dalle autorità sanitarie regionale, tramite delibera, solo in Lombardia, Veneto, Puglia e Sicilia”.

Per Aceti è chiaro che, “alla luce delle evidenze e dei progressi cinici, ci debba essere uno spazio sul territorio anche per la gestione delle leucemie, evitando che il paziente sia obbligato ad andare in ospedale per fare visite ed esami che potrebbe eseguire sul territorio”. Tuttavia, “svolgere certi esami sul territorio, come quelli del sangue, non è banale come può sembrare, tant’è che fino ad oggi solo poche realtà hanno garantito questa possibilità”. Ci vuole programmazione, organizzazione, investimenti. Tanto più se si considera che questi servizi vanno garantiti in tutto il Paese, in particolare laddove gli ospedali e i centri di eccellenza sono più lontani. Così come occorre allargare lo sguardo anche su quegli elementi che possono migliorare la vita dei pazienti anche oltre gli aspetti cliniche. Per Aceti “il Piano cronicità è il luogo principe sul quale si può e si deve ragionare, ma dobbiamo migliorare che il Piano nazionale oncologico”.

A chiudere gli interventi, Chiara Cernetti, direttore Market Access Italia e Balcani di Beigene, che ha rinnovato l’impegno dell’azienda per lo sviluppo di farmaci contro i tumori solidi e oncoematologici. “La nostra ambizione – ha detto – è quella di fornire, entro il 2030, una gamma di farmaci innovativi, sostenibili, accessibili il più velocemente possibile al maggior numero di pazienti affetti da cancro in tutto il mondo, perché siamo convinti che tutti debbano avere la possibilità di essere curati”.

Cernetti ha evidenziato come questo obiettivo passi “inevitabilmente” attraverso “collaborazioni con i sistemi-Paesi, con i governi, ma anche con le associazioni pazienti e le società scientifiche”. Per Beigene, dunque, “collaborazione, sostenibilità e disponibilità di innovazione sono parole chiave”.

Ma “accesso”, per Cernetti, “non significa solamente avere disponibilità del farmaco. L’accesso è abbattere le barriere che limitano il diritto alla salute, che siano esse di sistema o nell’ambito dei percorsi organizzativi. La qualità di vita dei pazienti deve essere un punto fermo”.

Lucia Conti

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